sabato 30 marzo 2019

Sul primo incontro fra Des Grieux e Manon Lescaut

Una cosa è certa: il primo incontro fra Des Grieux e Manon mi commuove e mi commuoverà sempre, ogni volta. Sono quei passi così puri e così autenticamente grandi che si dovrebbero ascoltare in ginocchio, ad occhi chiusi, per omaggiare il fatto stesso di prendervi parte.
Possiamo contare questo come il primo fra i luoghi pucciniani del batticuore, quelli del profondo coinvolgimento emotivo. Per chi ha già fatto sua quest’opera, l’ascolto del passo vale come gemma che annuncia e chiude in sé quel che segue e che qui appunto si prepara. E lo è anche per ragioni schiettamente musicali dal momento che la soluzione motivica adottata da Puccini pone in relazione il pregnante tema del nome («Manon Lescaut mi chiamo») tanto con il trepidante invito rivolto dallo studente quanto con la frase che lo ha accompagnato in scena. È, insomma, questo il vero principio della vicenda e quasi ferma il cuore dell’ascoltatore che è nell’attesa di farsi raccontare in musica, per la milionesima volta, tutto quel che avviene dopo l’incontro sul piazzale di Amiens; ed è, allora, come se i due amanti, pur senza saperlo ancora, già fossero stretti l’uno all’altra nelle desolate lande d’America.
Se, per Des Grieux, vista e primo approccio con Manon sono bruciante rivelazione, non è minore quella dello spettatore pucciniano a contatto con un sentire nuovo, con la personalità di un compositore che qui - direi per la primissima volta - testimonia davvero tutta la propria grandezza. I versi del travagliato libretto sono perfettamente scelti, certo. Ma letti di per se stessi non scalderebbero nessuno e questo in ragione del fatto che la musica li ha plasmati parola per parola su di sé, al fine di assecondare tutta l’attività del proprio sensibilissimo sismografo. «E strani moti ha il mio cuore», confessa Des Grieux che sembra ammiccare così pure al nostro stupore, alla nostra partecipazione. Si ascolti allora, per bene, come sono organizzate le frasi musicali nel rapporto col verso e quale effetto tra il colloquiale ed il commosso guadagni la ripetizione di «perdonate al dir mio». E così pure lo slancio di Des Grieux che è sorvegliato e trattenuto nelle legature per meglio dichiararsi sincero: «Oh, come siete bella!». E ancora, l’apertura a promesse e orizzonti di speranza che sta tutta nel portamento di «No! Sul vostro destino». Siamo ad una pagina leggendaria, insomma. Manon Lescaut è opera di proverbiale difficoltà vocale per due protagonisti assoluti che - fatto unico nel teatro pucciniano - sono davvero in primissimo piano lungo tutto il tempo dell’esecuzione. Da ricordare sempre, per non farsi trarre in inganno, è quale distanza stacchi l’ascolto dal vivo dalle pur bellissime registrazioni in studio. Perché, se c’è un titolo pucciniano in cui è la sala del teatro a restituire con evidenza tutta una serie di problematiche, quello è proprio Manon Lescaut.
Nell’incisione qui allegata, che qualche benemerito ha caricato su YouTube, i due straordinari protagonisti avevano entrambi superato i sessant’anni con la freschezza e la maturità interpretativa che li ha resi leggendari quanto l’opera stessa. La direzione di Veltri è quella di chi possiede con solidità il grande repertorio scaldandolo di premure verso il canto e guadagnando proprio qui un nervosismo espressivo particolarmente adatto al fraseggio del terzo titolo pucciniano, fatto di mille proficue complicità tra buca e scena. Si dirà, senza torto e con non poca scontatezza, che alla guida dell’orchestra di Caracas il direttore trascura molte preziosità timbriche e rilievi chiaroscurali che danno lustro alla partitura. Ma è bene ricordare che un certo calligrafismo, non estraneo ad alcune pur interessantissime edizioni in studio e poi pure portato in sala credendo così mascherare la mancanza d’interpreti “di peso”, ha finito negli anni per lenire, sino talvolta ad addormentarla, la carica incendiaria e sensualmente eversiva di un titolo come questo, vivificato d’azione rapida e da spontaneità che furono riconosciute sin dal primo apparire. Quanto stanno bene, insomma, a Manon Lescaut quella certa sfrenatezza e quell’elusione della simmetria e della quadratura di frasi che rischierebbero suonare troppo classiche! Perché è qui che si assapora davvero un nuovo sentire, un’immediatezza cinematografica che non abbraccia soltanto il celebre concertato dell’atto terzo ma che sta tutta nella dialettica di personaggi chiamati ad agire “qui ed ora”. Ed è questa una delle evidenze che più distanziano l’opera di Puccini da quella di Massenet. Possiamo definirla con un termine che implicitamente rimanda alla fotografia: un’istantaneità di tratto che non evoca e non mima perché sa già di essere.


lunedì 25 marzo 2019

Peterloo


È una visione che fa proprio bene in questi tempi di generale spaesamento ideologico; tempi in cui vengono messe in discussione la facoltà di chi decide all’interno di una comunità e il mandato in base al quale è legittimato a farlo. È insomma una visione salutare, davvero rara al cinema in questi ultimi mesi, che ci conduce ad un passaggio determinante della Storia: l’eredità rivoluzionaria e napoleonica d’oltremanica, fra lotte contro il carovita e la conquista di spazi di rappresentanza che sono ancora aspro terreno di scontro pure nella patria dell’Habeas corpus.
Il nuovo film di Leigh si muove fra i gangli più sensibili della società inglese del secondo decennio dell’Ottocento, anche in quelli che daremmo per scontati e che non senza sorprese ritroviamo oggi, qui, nostri in toto. In modo particolare, attraverso le dinamiche complesse di una battaglia politica e sociale, c’è il problema delle parole giuste da rivolgere a tutti quanti, anche a chi non ha mezzi sufficienti per comprendere essendo al tempo stesso ingranaggio insostituibile del processo storico.
Attori e recitazione sono di livello inglese e dunque alto per davvero, con figure e volti indovinatissimi anche nel restituire la nobile bruttezza del popolino. Di qualità eccellente è la fotografia di Pope che possiede la grana carnosa di certi interni fiamminghi.
Leigh si prende i suoi tempi (154’) che sono quelli giusti, indispensabili per preparare e poi sferrare il gran colpo. Tempi che, del resto, aderiscono in tutto a quelli della vita. Un fatto che - guardato il film in una sala milanese gremita di signori borghesi sulla sessantina e tutti insofferenti - testimonia quanto il tempo dell’uomo abbia subito una contrazione isterica che, soltanto nel contatto con l’arte, chi lo cerca per riaccordarsi ad esso può sperare di trovarlo.