Una cosa è certa: il primo incontro fra Des Grieux e Manon mi commuove e
mi commuoverà sempre, ogni volta. Sono quei passi così puri e così
autenticamente grandi che si dovrebbero ascoltare in ginocchio, ad occhi
chiusi, per omaggiare il fatto stesso di prendervi parte.
Possiamo
contare questo come il primo fra i luoghi pucciniani del batticuore,
quelli del profondo coinvolgimento emotivo. Per chi ha già fatto sua
quest’opera, l’ascolto del passo vale come gemma che annuncia e chiude
in sé quel che segue e che qui appunto si prepara. E lo è anche per
ragioni schiettamente musicali dal momento che la soluzione motivica
adottata da Puccini pone in relazione il pregnante tema del nome («Manon
Lescaut mi chiamo») tanto con il trepidante invito rivolto dallo
studente quanto con la frase che lo ha accompagnato in scena. È,
insomma, questo il vero principio della vicenda e quasi ferma il cuore
dell’ascoltatore che è nell’attesa di farsi raccontare in musica, per la
milionesima volta, tutto quel che avviene dopo l’incontro sul piazzale
di Amiens; ed è, allora, come se i due amanti, pur senza saperlo ancora,
già fossero stretti l’uno all’altra nelle desolate lande d’America.
Se, per Des Grieux, vista e primo approccio con Manon sono bruciante
rivelazione, non è minore quella dello spettatore pucciniano a contatto
con un sentire nuovo, con la personalità di un compositore che qui -
direi per la primissima volta - testimonia davvero tutta la propria
grandezza. I versi del travagliato libretto sono perfettamente scelti,
certo. Ma letti di per se stessi non scalderebbero nessuno e questo in
ragione del fatto che la musica li ha plasmati parola per parola su di
sé, al fine di assecondare tutta l’attività del proprio sensibilissimo
sismografo. «E strani moti ha il mio cuore», confessa Des Grieux che
sembra ammiccare così pure al nostro stupore, alla nostra
partecipazione. Si ascolti allora, per bene, come sono organizzate le
frasi musicali nel rapporto col verso e quale effetto tra il colloquiale
ed il commosso guadagni la ripetizione di «perdonate al dir mio». E
così pure lo slancio di Des Grieux che è sorvegliato e trattenuto nelle
legature per meglio dichiararsi sincero: «Oh, come siete bella!». E
ancora, l’apertura a promesse e orizzonti di speranza che sta tutta nel
portamento di «No! Sul vostro destino». Siamo ad una pagina leggendaria,
insomma. Manon Lescaut è opera di proverbiale difficoltà vocale
per due protagonisti assoluti che - fatto unico nel teatro pucciniano -
sono davvero in primissimo piano lungo tutto il tempo dell’esecuzione.
Da ricordare sempre, per non farsi trarre in inganno, è quale distanza
stacchi l’ascolto dal vivo dalle pur bellissime registrazioni in studio.
Perché, se c’è un titolo pucciniano in cui è la sala del teatro a
restituire con evidenza tutta una serie di problematiche, quello è
proprio Manon Lescaut.
Nell’incisione qui allegata, che qualche
benemerito ha caricato su YouTube, i due straordinari protagonisti
avevano entrambi superato i sessant’anni con la freschezza e la maturità
interpretativa che li ha resi leggendari quanto l’opera stessa. La
direzione di Veltri è quella di chi possiede con solidità il grande
repertorio scaldandolo di premure verso il canto e guadagnando proprio
qui un nervosismo espressivo particolarmente adatto al fraseggio del
terzo titolo pucciniano, fatto di mille proficue complicità tra buca e
scena. Si dirà, senza torto e con non poca scontatezza, che alla guida
dell’orchestra di Caracas il direttore trascura molte preziosità
timbriche e rilievi chiaroscurali che danno lustro alla partitura. Ma è
bene ricordare che un certo calligrafismo, non estraneo ad alcune pur
interessantissime edizioni in studio e poi pure portato in sala credendo
così mascherare la mancanza d’interpreti “di peso”, ha finito negli
anni per lenire, sino talvolta ad addormentarla, la carica incendiaria e
sensualmente eversiva di un titolo come questo, vivificato d’azione
rapida e da spontaneità che furono riconosciute sin dal primo apparire.
Quanto stanno bene, insomma, a Manon Lescaut quella certa sfrenatezza e
quell’elusione della simmetria e della quadratura di frasi che
rischierebbero suonare troppo classiche! Perché è qui che si assapora
davvero un nuovo sentire, un’immediatezza cinematografica che non
abbraccia soltanto il celebre concertato dell’atto terzo ma che sta
tutta nella dialettica di personaggi chiamati ad agire “qui ed ora”. Ed è
questa una delle evidenze che più distanziano l’opera di Puccini da
quella di Massenet. Possiamo definirla con un termine che implicitamente
rimanda alla fotografia: un’istantaneità di tratto che non evoca e non
mima perché sa già di essere.
sabato 30 marzo 2019
lunedì 25 marzo 2019
Peterloo
È una visione che fa proprio bene in questi tempi di generale spaesamento ideologico; tempi in cui vengono messe in discussione la facoltà di chi decide all’interno di una comunità e il mandato in base al quale è legittimato a farlo. È insomma una visione salutare, davvero rara al cinema in questi ultimi mesi, che ci conduce ad un passaggio determinante della Storia: l’eredità rivoluzionaria e napoleonica d’oltremanica, fra lotte contro il carovita e la conquista di spazi di rappresentanza che sono ancora aspro terreno di scontro pure nella patria dell’Habeas corpus.
Il nuovo film di Leigh si muove fra i gangli più sensibili della società inglese del secondo decennio dell’Ottocento, anche in quelli che daremmo per scontati e che non senza sorprese ritroviamo oggi, qui, nostri in toto. In modo particolare, attraverso le dinamiche complesse di una battaglia politica e sociale, c’è il problema delle parole giuste da rivolgere a tutti quanti, anche a chi non ha mezzi sufficienti per comprendere essendo al tempo stesso ingranaggio insostituibile del processo storico.
Attori e recitazione sono di livello inglese e dunque alto per davvero, con figure e volti indovinatissimi anche nel restituire la nobile bruttezza del popolino. Di qualità eccellente è la fotografia di Pope che possiede la grana carnosa di certi interni fiamminghi.
Leigh si prende i suoi tempi (154’) che sono quelli giusti, indispensabili per preparare e poi sferrare il gran colpo. Tempi che, del resto, aderiscono in tutto a quelli della vita. Un fatto che - guardato il film in una sala milanese gremita di signori borghesi sulla sessantina e tutti insofferenti - testimonia quanto il tempo dell’uomo abbia subito una contrazione isterica che, soltanto nel contatto con l’arte, chi lo cerca per riaccordarsi ad esso può sperare di trovarlo.
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